Da pochi giorni grazie al mio carissimo amico Andrea Ingenito (noto gallerista d’arte di fama nazionale) prendo possesso di alcuni locali nel centro storico di Napoli, quello che per noi Napoletani è il ventre di Partenope.
Sento immediatamente il calore e l’appartenenza di quel posto. Non conosco nessuno, eppure è incontro subito un grande artista, nonché mio carissimo amico, Enzo Muriello, che in assoluto è il primo a sapere di questo passo.
Ci salutiamo e con Andrea andiamo via, per altre commissioni.
Passati un po’ di giorni, per motivi di lavoro con Andrea ci diamo appuntamento al nuovo laboratorio e ne approfitto per chiamare il presidente della nostra associazione (N’Sea Yet) certo che gli avrebbe fatto molto piacere vedere i locali. Poco dopo ci ritroviamo in tre, Andrea, Dario e io. Finito di fare ciò che dovevamo, nel salutarci sconvolgiamo la giornata di Dario invitandolo a stare con noi. Dario cancella tutti i suoi impegni e si aggrega.
Urge un caffè. Ci incamminiamo per via dei Tribunali e Dario si rende conto di non aver fato colazione e che ha una fame improvvisa. A pochi passi da noi scorgiamo una panetteria dall’aspetto invitante. Entriamo. Mentre sono alla cassa a pagare, la signora della cassa mi chiede se siamo del posto. Gli rispondo di no e gli racconto del nuovo laboratorio. Improvvisamente la ragazza scatta dirigendosi verso di me chiedendomi informazioni. Quando viene a conoscenza che sarà un laboratorio dove prenderanno vita oggetti che nascono da materiale riciclato, spalanca gli occhi colmi di immensa gioia e il sorriso si legge anche attraverso la mascherina.
Dario, che è un grandissimo comunicatore, attacca bottone e le strappa il numero di telefono. In pochi minuti abbiamo reso quel posto un piccolo palcoscenico.
La giornata passa veloce e cosa importantissima, felice e serena.
I giorni passano ed io sempre più spesso sono al nuovo laboratorio e un po’ per curiosità, un po’ per compatibilità caratteriale con quella ragazza, gli incontri si intensificano. Fino a quando un giorno, prendendo un caffè, mi dice che deve andare a casa di una persona poliedrica e che non le va nel modo più assoluto di presentarsi con le mani in mano. Chiacchierando mi domanda se io conosco Carmine Aymone, crucciato le dico di no.
Lei mi descrive il personaggio, io resto basito e penso: “azz tnimm chestu bben eddij a Napule!”. Non so cosa mi sia preso, ma più lei descriveva il personaggio e più io mi allontanavo con la mente, e quando lei disse che era stato amico di Pino Daniele, io ero dall’altra parte del mondo. Lei si rese conto che io stavo viaggiando per i fatti miei e mi riportò a terra gridandomi: «Geeeeeeniooo, mà ròò stai?>>. Mi ripresi e gli di proposi che io avrei avuto gran piacere se lei mi avesse lasciato provare a riempirgli quelle mani per poter andare a fare quella visita in modo fiero e spensierato, lei accettò la mia proposta, ma solo sotto compenso economico, le do l’ok. Passammo qualche ora ancora insieme a ridere del mondo e a dispensare sorrisi e serenità per quelle poche bottega aperte, ci salutammo e io andai a prender la mia macchina per rientrare a casa, ma una vota in auto mi resi conto di non avere nessuna voglia di rientrare a casa. Girai e me ne andai in giro per Napoli e quando io me ne vado in giro per Napoli finisco sempre a bere una birra a Mergellina.
Non chiedetemi perché ma ho un grande feeling con Mergellina e viceversa perché anche questa volta si verifica un incantesimo.
Era tardo pomeriggio, il sole stava calando dietro la collina di Posillipo, io sorseggiavo la mia birretta pensando a cosa avrei potuto dare vita per emozionare quella ragazza, per poter andare a far visita ad un personaggio cosi speciale. La mia birra finì e avevo voglio di berne ancora una, così scesi dalla macchina per avvicinarmi al chioschetto, quando improvvisamente venni attratto da un riflesso di luce che prese forma nel golfo di Napoli.
Mi fermai e aspettai.
La ragazza del chioschetto mi disse: «Maestro, ma che succies? Sit rimast che sordo mman>>.
Io non distolsi lo sguardo dal mare ed ecco che tutto fu chiaro, l’immagine era completa!
Pagai la birra, mi scusai con la ragazza del chioschetto e scappai in auto. Nel tornare a casa, dialogavo con la birra che mano mano diventa sempre meno, dicendole che se tutto fosse andato bene per quella stessa notte sarei riuscito a dare vita ad un qualche cosa di unico al mondo, sperando di sconvolgere quella ragazza della panetteria, che nel frattempo avevo scoperto chiamarsi Agnese.
Arrivato a casa, mi sigillai nel mio laboratorio e cominciai a maneggiare attrezzi e cianfrusaglie varie. Trovai di tutto, ma mancava l’elemento principale per poter dare vita a quel riflesso che il mare e il sole mi avevano regalato.
Tutto! Nel mio micro laboratorio avevo di tutto, non era possibile che mancava proprio lei! Una fascia di alluminio, una fascia d’acciaio, una fascia di ottone, una fascia di rame. No, non ci potevo credere.
Nel frattempo mi stavo scrivendo con Agnese, che insisteva nel dirmi che potevo stare calmo e che potevo fare l’opera con calma. Io invece insistevo perché avevo tutto già in mente e mentre chiacchieriamo, alzai la testa verso il soffitto. Un sussulto, un solo grido: «lo sapevo, lo sapevo! Ero certo Agne’, l’ho trovato!». Era una vecchia piastra di alluminio, un avanzo che neanche a farlo apposta avevo recuperato da un cantiere, dopo che avevano montato un box doccia. Potevo procedere come un treno e le diedi certezza che l’indomani avrebbe avuto il suo dono.
Mi portai la lunga fascia di alluminio sul banco e cominciai a pensare a come poterla modellare per riprodurre quel riflesso. Presi a sagomare le curve con le mani, ma mi resi conto che le mani non riuscivano e così mi affidai alla morsa per i ricciolo più stretto. La fascia cominciava ad assumere l’aspetto di quello che avevo in testa. Le ore passavano e Agnese era sempre con me a farmi compagnia, l’opera assumeva sempre di più il suo aspetto e anche se era notte, con molta cautela, usai il seghetto per le incisioni d’incastro per creare più armonia.
Nel frattempo, oltre ad Agnese, a farmi compagnia in laboratorio c’erano la mia birretta, ma soprattutto il mio unico ispiratore, il mio unico mantra, la mia fonte di adrenalina pura, il gigantesco Sergio Mancinelli con il suo programma musicale che da decenni di notte mi regala energia allo stato puro. E quella sera si stava rivelando tutto magico e musica di una bellezza ineguagliabile.
Le mani, che sembravano le mani di un direttore d’orchestra, con una fantastica eleganza si aggiravano sul banco alla ricerca di quelli che erano i giusti attrezzi per forgiare Lei.
Agnese era incuriosita di sapere a cosa stavano dando vita le mie mani.
I tagli per gli incastri erano perfetti, gli ultimi ritocchi alle sinuose curve ed ecco che come d”incanto la base era nata: una fantastica chiave di violino luccicante, come l’ispirazione che mi aveva dato quel riflesso nel mare a Mergellina!
Ora dovevo solo studiare dove posizionare la lampada per non far perdere l’armonia. Erano le due di notte, ma l’adrenalina non si placava. Ormai ero solo in laboratorio: Agnese mi aveva lasciato dandomi la buonanotte, Sergio Mancinelli era andato via ormai da ore. Con me era rimasta, come sempre, la mia inseparabile rossa da 8,5.
Frugando nel laboratori trovai una tavola di parquet con finitura scura, come piaceva ad Agnese. La portai sul banco e iniziai con trapano, viti, bulloni e chiavi fisse e nel giro di un’oretta la chiave di violino sfoggiava tutta la sua bellezza posizionata in verticale su quel piedistallo di zebrano, Non mi rimaneva che collocare la lampada. Andai in cucina per un sorso di caffè, ma la moka era vuota e di farlo non avevo voglia, così ritornai in laboratorio e mi aprii un’altra rossa.
Feci un po’ di spazio sul banco e cominciai a studiare il posizionamento della lampada. Dopo pochi minuti riesco a trovare la sua giusta collocazione: via di nuovo di trapano, poi bulloni, viti, cacciavite e pinza ed ecco che dopo una mezz’oretta anche la lampada era fissata. Ero emozionatissimo, non vedevo l’ora di vederla accesa. Così presi cavo e prolunga per fare un piccolo impiantino, quando dopo pochi secondi, cedette uno degli incastri fatti con il seghetto per renderla più sinuosa, rendendo in attimo la lampada irreparabile. Fui talmente preso di sorpresa che solo dopo pochi secondi mi resi conto di quello che era successo. Mi partì l’embolo e con le mani distruggo tutto.
Ero letteralmente a pezzi, come avrebbe fatto Agnese? Aveva avuto piena fiducia in me ed io cosa avevo fatto? L’avevo delusa e l’indomani per colpa mia avrebbe fatto un brutta figura. Non me la sarei mai perdonata.
Erano quasi le tre del mattino e prima di mettermi nel letto, mandai un vocale ad Agnese per metterla a conoscenza dell’accaduto. Non chiusi occhio tutta la notte al pensiero del disastro che avevo fatto.
Verso le otto un bip al telefono catturò la mia attenzione e trovai il vocale di Agnese che mi diceva di stare tranquillo, ma io non lo ero affatto e le risposi dicendole che ero amareggiato e che mi sentivo veramente giù.
Posai il telefono e mi rigirai nel letto. Le ore passavano e Agnese continuava a mandarmi dei messaggi per cercare di tirami giù dal letto, finché non me ne inviò uno dove con uno bello sfottò, riuscì a farmi cambiare umore.
E così, dopo qualche ora, ero di nuovo alla ricerca di elementi che mi potessero dare una seconda occasione per ricreare la lampada.
L’unica cosa che mi dispiaceva era che non sarebbe stato un riciclo totale, perché la fascia di alluminio la comprai, ma a differenza della precedente, ebbi la possibilità di sceglierla più larga e con una finitura brillante.
Corsi a casa, ero un vulcano in eruzione, avevo una voglia devastante di riscattarmi: non potevo permettere nel modo più assoluto che questa avventura finisse in questo modo, c’era qualcuno che aveva creduto in me e non potevo deluderlo.
Mangiai velocemente un boccone e andai di corsa in laboratorio. Erano più o meno le quindici. Partii come un treno. Quella fascia si modellava come il burro, non so se questo era dovuto al fatto che per la seconda volta facevo gli stessi movimenti o se era la fascia ad essere molto più duttile, ma nel giro di poche ore la chiave di violino era finita!
Rispetto alla precedente esperienza, stavolta avevo perfezionato con molta cura i dettagli, nei minimi particolari. La nuova posizione del portalampada mi obbligò a cambiare la lampadina che scelsi con una forma a siluro, con luce gialla a led, in stile vintage. Assemblai tutto in maniera euforica, sapevo di essere vicino al traguardo ma questa volta non ci sarebbero state sorprese.
Da poco nel mio laboratorio era arrivato il mio Sergione, con la sua fantastica musica e avevo la mia rossa 8,5. Con grandissima soddisfazione mi guardavo il mio ultimo CAPRICCIO MENTALE, ma a differenza di ieri sera mancava solo Agnese.
Non mi restava che fare il piccolo impiantino per dare energia a questa chiave di violino, dallo scaffale presi un cavo elettrico nero e cominciai il montaggio. Ma dopo aver collegato il portalampada vidi il filo raccolto sul riccio della lampada. Fu un impatto troppo forte, quel filo nero non mi piaceva affatto e come spesso mi accadeva, mi fermai, uscii dal laboratorio per dare un attimo tregua ai miei pensieri. Non feci in tempo ad arrivare in cucina che il mio Sergio mi diede la soluzione: partì la canzone di Lucio Battisti “Fiori rosa fiori di pesco” e fu proprio con quell’intro che corsi in laboratori a prendere un cavo elettrico di quelli telati di colore rosa. Smontai immediatamente quella bruttura nera e cominciai con immenso piacere, quasi raggiungendo emozioni di amore, a montare il filo rosa.
“Bip bip bip”, mi girai a guardare il mio telefono e trovai scritto “Agnese”. Finii l’assemblaggio del filo al portalampada, le risposi e scambiammo qualche parola:
«Sei in laboratorio?»
«Sì>>
«Cosa stai facendo?»
«La lampada che ho rotto ieri»
«Ah, ti stai preparando ad un’altra nottata?»
«No, anzi! Penso che tra qualche minuto l’ho finita. E ti posso garantire che è successo quello che mi avevi anticipato nel vocale di ieri: questa è venuto molto meglio della precedente. Evidentemente tu ci hai visto lungo, l’hai fatta rompere tu perché sapevi che sarei stato in grado di migliorarla»
E mentre chiacchieravamo, io avevo assemblato anche la spina e l’interruttore di accensione.
«Non è vero, era bella anche quella»
«Dici cosi perché non hai visto questa. Io te lo posso garantire, è qui davanti ai miei occhi»
«E perché non me la fai vedere?»
«Perchè tu me l’hai chiesto?»
«Hai ragione, scusa. Mi mandi le foto? »
Feci le foto e gliele inviai…
«GIANCAAAAAAAA! MA È BELLISSIMA! HAI RAGIONE, RISPETTO A QUELLA DI IERI E TUTT NATA STORJ. GRAZIEEEEEEEEEEE!»
«Adesso dobbiamo solo prendere gli accordi per potertela portare li al centro storico, ma per me domani è un macello. Ho una giornata di fuoco, non hai idea. Dimmi se te la posso lasciare da qualche parte e poi passi a prendertela.»
Dopo qualche minuto mi contattò e definimmo l’incontro.
Il mattino seguente ci siamo trovati per prendere un caffè a piazza del Gesù, quattro risate, che ormai sono il nostro segno particolare e poi ogni uno per la sua strada.
Il resto lo devi dire tu a me, Carmine.